La radiografia muonica, detta anche muografia, è una tecnica relativamente recente che permette di “guardare” dentro oggetti di grandi dimensioni. Deve il suo nome ai muoni, particelle elementari del tutto simili agli elettroni (ma 200 volte più pesanti), che investono la Terra in ogni momento e da ogni direzione.
Come la radiografia a raggi-X fruga nelle nostre valigie o rivela l’interno del nostro corpo, così la radiografia muonica è usata per “guardare” dentro oggetti di scala molto più larga, come vulcani, ma anche beni culturali, grandi macchine industriali, container e altro ancora. L’analogia non si ferma qui, quello che noi ricostruiamo nelle nostre “lastre” è l’assenza di muoni, esattamente come succede con i raggi-X.

Il premio Nobel Luis Walter Álvarez, tra i primi a riconoscere le potenzialità di questa metodologia, la utilizzò per cercare camere funerarie non conosciute nella piramide di Chephren. La presenza di diverse camere e gallerie  nella piramide di Cheope insinuò nello scienziato il sospetto che qualcosa di simile potesse celarsi anche nel sepolcro di Chephren e cercò un modo per averne prova senza ricorrere a metodi invasivi. In quest’ottica dunque, quale miglior scelta se non la radiografia muonica? La sua esperienza finì col dimostrare l’assenza di altre camere nascoste, ma il risultato servì ad affermare l’utilità di questa tecnica innovativa, che si basa su principi della fisica delle particelle, in applicazioni di ricerca archeologica, consentendo di lavorare in sicurezza, evitando cioè qualsiasi rischio di danneggiare i beni culturali.

Una pioggia di particelle

Figura 1:  esempio di produzione di sciami di particelle a partire da raggi cosmici primari che impattano sull’atmosfera terrestre -  © Mark Garlick / SCIENCE PHOTO LIBRARY

Realizzare una muografia è possibile grazie all’esistenza di una sorgente “gratuita” di particelle: i raggi cosmici. Essi sono per lo più protoni che, provenendo da ogni parte dell’universo, attraversano l’atmosfera terrestre  scontrandosi con gli atomi che la compongono. Da questi scontri, propriamente detti interazioni, si generano nuove particelle, dando origine ai cosiddetti sciami (Figura 1). A livello del suolo troviamo quasi solamente muoni ed elettroni di bassa energia. I primi sono in grado di penetrare nel terreno, mentre gli altri sono attenuati fin quasi a scomparire già da uno strato sottile di terreno. È questo dato che permette di utilizzare questa tecnica[1]. 

Radiografia sì, ma a… muoni!

Ci si potrebbe chiedere perché utilizzare una radiografia a muoni se da tempo esiste ed è largamente utilizzata la radiografia a raggi-X. La risposta è semplice, ma per comprenderla vediamo come funziona la radiografia.
Prendiamo come esempio il corpo umano, le cui radiografie ci sono familiari. Nell’immagine radiografica, il contrasto che si osserva tra i diversi tessuti dipende dalla loro diversa densità. Dire che la materia è più o meno densa, significa dire che è composta da più o meno atomi per unità di volume. La quantità di atomi incontrati dai raggi-X determina la probabilità che questi ultimi possano attraversare il corpo senza esserne assorbiti, quindi uscirne e colpire la lastra fotografica. In ogni urto il raggio X – ovvero un fotone – perde parte della sua energia: più è denso il materiale, più urti avvengono e più energia è persa. Se il raggio, attraversando uno strato di materiale, perde abbastanza energia da non raggiungere la lastra (pellicola) radiografica questa non verrà impressionata.  La quantità di raggi-X che impressiona la lastra dipende quindi dalla densità dei tessuti, o materiali in generale, che vengono attraversati, generando un’immagine in negativo: le zone più scure nell’immagine indicheranno minor densità, viceversa le zone più chiare, meno impressionate, corrisponderanno a zone più dense. 

La prima radiografia della storia fu realizzata dal suo stesso scopritore, Wilhelm Conrad Röntgen. Lo scienziato interpose la mano di sua moglie tra la sorgente di raggi-X e una lastra fotografica, osservando comparire sulla lastra l’immagine scura delle ossa della donna, dimostrando che il materiale osseo non permette il passaggio dei raggi-X, diversamente dai tessuti molli [2]. 

I raggi-X però vengono facilmente assorbiti nella maggior parte dei materiali; per questo motivo quindi la radiografia a raggi-X può essere utilizzata per studiare solo oggetti di spessore ridotto.
È a questo punto che la radiografia muonica diventa essenziale. I muoni infatti sono particelle altamente penetranti nella materia; essi, se sufficientemente energetici, sono in grado di sopravvivere anche alcune centinaia di metri nella roccia. 

Questa loro caratteristica è la chiave di volta per radiografare oggetti enormi, come una piramide! Inoltre, mentre i raggi-X sono prodotti artificialmente, con costi e limitazioni, i raggi cosmici forniscono una sorgente naturale di muoni, costantemente a disposizione in qualunque posto del mondo e da ogni direzione. Questo è un vantaggio quando ci si trova in situazioni ambientali difficili (come può essere un vulcano attivo).

Contiamo particelle per misurare la densità

La muografia, analogamente alla radiografia X, permette di ricavare la distribuzione di densità all’interno di un oggetto, misurando l’assorbimento di particelle attraverso di esso. La lastra radiografica, sensibile all’arrivo dei raggi-X, è in questo caso sostituita da un rivelatore di muoni. Il rivelatore conta il numero di particelle che lo colpiscono e ne misura la direzione. Per poter ricavare informazioni sulla struttura interna dell’oggetto di indagine è necessario installare il rivelatore al di sotto o lateralmente rispetto ad esso, in modo da essere sensibili alle particelle che abbiano attraversato il target. Per lo studio dei vulcani, ad esempio, viene posizionato lateralmente; da questa posizione i muoni che forniscono informazione attraversando il vulcano provengono da direzioni quasi orizzontali, come si vede in Figura 2. Il flusso di muoni da queste direzioni è significativamente ridotto rispetto alla verticale, questo aumenta il tempo di esposizione necessario per effettuare la misura. In generale ricordiamo che il flusso di muoni varia circa come il cosθ2, dove θ è l’angolo rispetto alla verticale. 

Figura 2: rivelatore di muoni installato lateralmente sul fianco di un vulcano. Per realizzarne l’immagine muografica è necessario misurare muoni che provengono da direzioni orizzontali o a bassa elevazione - ©Mariaelena D’Errico  

Nel caso in cui invece si voglia investigare una certa regione del sottosuolo, il rivelatore viene installato in una galleria sotterranea, a una profondità maggiore rispetto alla zona di interesse, o può essere inserito in un pozzo, se forma e dimensioni lo consentono.
Il numero di muoni che attraversano il rivelatore viene misurato in funzione della loro direzione di provenienza. Infatti, considerando le dimensioni dell’oggetto rispetto a quelle del rivelatore, direzioni diverse sono necessarie a formare l’immagine completa (Figura 3).

Figura 3: il rivelatore di particelle misura la direzione dei muoni cosmici che lo raggiungono per formare l’immagine completa dell’oggetto. Muoni che raggiungono il telescopio da diverse direzioni hanno attraversato parti diverse del vulcano - © Mariaelena D’Errico

 

Il flusso di muoni misurato a valle dell’oggetto di interesse viene normalizzato a un flusso di riferimento che è misurato in condizioni simili, inquadrando il cielo libero, per riprodurre la stessa condizione di misura ma in assenza dell’oggetto in studio. Il rapporto tra i due flussi, detto trasmissione, dipende dalla densità media della roccia attraversata in ogni direzione. La mappa di densità viene infine ricavata dal confronto fra trasmissione misurata e trasmissione attesa, ottenuta a partire da un modello di flusso di raggi cosmici, di interazione muoni-materia e sulla base della geometria dell’oggetto di studio. 

Passate, presenti e future applicazioni della radiografia muonica

La radiografia muonica ha raggiunto risultati importanti in svariati campi [3]. È stata, ed è, utilizzata per lo studio di diversi vulcani nel mondo, in Giappone, Francia e Italia; in queste applicazioni si è rivelata un valido alleato dei metodi standard di misura e monitoraggio vulcanico. Ha permesso di avvicinare due mondi apparentemente separati, quello della geofisica e della fisica delle particelle, sviluppando virtuose sinergie. 

Le misure di radiografia muonica permettono agli esperti una migliore conoscenza della struttura interna del vulcano, facilitando la realizzazione di modelli predittivi di attività futura e migliorando la comprensione dell’attività passata. Inoltre, le misure muografiche possono essere combinate con quelle gravimetriche, aumentando l’efficienza dei modelli di inversione 3D della distribuzione di densità. Il maggiore svantaggio della muografia in questo campo è legato alle tempistiche: infatti, grandi spessori di roccia (che mediamente variano da ~100 m fino alla scala del chilometro) e bassi flussi orizzontali, aumentano significativamente il tempo di esposizione necessario ad accumulare un campione di muoni statisticamente significativo. Questi esperimenti, infatti, arrivano a durare alcuni anni. In alcuni casi è possibile realizzare un sistema di monitoraggio muografico continuo e rilevare modificazioni nella distribuzione interna di massa, che rappresentano possibili precursori di un’eruzione [4]. 

Tra le ricerche italiane sono degne di nota le misure realizzate allo Stromboli e il monitoraggio del Vesuvio. Nel primo caso misure muografiche hanno evidenziato una significativa zona a bassa densità sulla sommità del vulcano con un contrasto di densità del 30-40% rispetto al substrato roccioso [5].

Immagine con il Vesuvio vista città

Vista dall'alto sul cratere del Vesuvio - ©Andrii Kozac/Shutterstock

Il Vesuvio è in fase di studio nell’ambito del progetto MURAVES (MUon RAdiography of the mt. VESuvius) [6] in cui l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) nelle sezioni di Napoli e Firenze collabora con l’INGV (Istituto Nazionale di Fisica e Vulcanologia) e con Università italiane e straniere. Studiare la struttura interna del Vesuvio attraverso la radiografia muonica rappresenta una grande sfida per la collaborazione e un grande potenziale, considerando che questo vulcano è oggetto di continuo e fondamentale monitoraggio, soprattutto a causa dell’elevata densità abitativa nei territori alle sue pendici. L’esperimento si svolge sul campo, dove è stato costruito un laboratorio (Figura 4) nel quale l’apparato di misura è alimentato da pannelli solari. Il rivelatore è in funzione dal 2019 e i dati vengono analizzati in tempo reale.

Di grande successo è l’utilizzo della radiografia muonica nello studio dei beni culturali e in particolare nella ricerca di cavità sotterranee. Infatti una cavità, interpretata come una mancanza di roccia sul percorso dei muoni, permette a questi ultimi di passare più facilmente; di conseguenza un rivelatore di muoni registrerà un numero maggiore di particelle in corrispondenza delle direzioni che intercettano la cavità (Figura 4). Questo metodo, a differenza di altri, è assolutamente non invasivo e non prevede quindi il minimo rischio di danneggiamento del bene.  

Figura 5: rappresentazione schematica di come una cavità sotterranea viene intercettata dai muoni che raggiungono il rivelatore da determinate direzioni - © Mariaelena D’Errico

 

Come abbiamo detto all’inizio è stato Álvarez per primo a usare questo metodo applicandolo alle piramidi. Sulla scia di quel lavoro, altri gruppi, in tempi più recenti, hanno nuovamente sfruttato questa tecnica negli stessi luoghi. Questa volta una collaborazione internazionale, ScanPyramids, ha ottenuto un risultato epocale: la scoperta di una camera, non ancora conosciuta, nella piramide di Cheope [7]. In Figura 6, una delle muografie realizzate nella piramide con emulsioni nucleari, confrontata con una simulazione. Si vede chiaramente un eccesso di muoni inatteso, corrispondente alla camera scoperta. 

Figura 6:  muografia (sinistra) ottenuta alla piramide di Cheope confrontata con il risultato atteso (destra). Con le lettere A e B sono indicati gli eccessi di muoni osservati in corrispondenza di camere note, e considerate nella simulazione (destra). La dicitura “New void” indica un eccesso di muoni di natura non nota, che prova l’esistenza della nuova camera [7]

 

L’applicazione di questa tecnica non è limitata alle sole piramidi; un risultato analogo è stato raggiunto anche nel sottosuolo del monte Echia, piccola collina che si erge al centro di Napoli, caratterizzato da una serie di cavità e gallerie sotterranee, realizzate in tempi diversi, a partire dalla preistoria fino al più recente 1800. Grazie al supporto dell’Associazione Borbonica Sotterranea, all’interno di questo scenario sono state realizzate immagini muografiche che hanno rivelato l’esistenza di una camera ignota e ne hanno permesso la modellizzazione 3D [8].  

Le nuove frontiere della radiografia muonica sono aperte ai più svariati, campi. Nuove proposte e studi di fattibilità, molto promettenti, vengono elaborati continuamente. Tra questi, molte applicazioni di interesse industriale, come per esempio il monitoraggio degli altiforni e della distribuzione dei vari materiali al loro interno. Inoltre, sistemi di controllo di cargo e container basati su un particolare tipo di muografia, detto tomografia muonica, sono stati realizzati a livello commerciale allo scopo di evidenziare la presenza di materiali pesanti o pericolosi, scongiurando tentativi di contrabbando nucleare [3]. 

 Insomma, seguendo i muoni nel loro cammino, ogni segreto potrà essere svelato! 

 

 

Bibliografia

[1] G. Batignani, G. Cerretani, M. Bitossi, R. Paoletti, A. De Angelis, L’esperimento di Pacini sull’origine dei raggi cosmici in: www.sif.it

[2] Chiara Oppedisano, Biografia di Wilhelm Conrad Röntgen in: www.scienzapertutti.infn.it

[3] G.Bonomi, at al - Progress in Particle and Nuclear Physics, Volume 112, May 2020, 103768

[4] Tanaka H.K.M., Kusagaya T., Shinohara H., Nature Commun., 5 (2014), p. 3381

[5] Tioukov V. et al Scientific Reports (2019) 9:6695 

[6] M. D'Errico et al 2020 JINST 15 C03014 

[7] Morishima, K., Kuno, M., Nishio, A. et al., Nature 552, 386–390 (2017) 

[8]  Cimmino L., Scientific Reports (2019) 9: 2974  

Referenze iconografiche: © Repina Valeriya/Shutterstock; © Mark Garlick / SCIENCE PHOTO LIBRARY; ©Andrii Kozac/Shutterstock ; © Mariaelena D’Errico