Nel luglio 2022 abbiamo festeggiato l’anniversario della scoperta del bosone di Higgs, annunciata al CERN di Ginevra dagli esperimenti ATLAS e CMS il 4 luglio di dieci anni prima. È stata un’occasione per ricordare questo risultato e per fare il punto sulla nostra comprensione del mondo infinitamente piccolo che costituisce il cuore della materia. 

Il modello o, parafrasando il filosofo Thomas Kuhn, il paradigma con cui gli scienziati guardano il mondo sub-nucleare, è noto come modello standard delle particelle elementari e delle loro interazioni. Si tratta del frutto di un lavoro paritario di ricercatori teorici e sperimentali che, nell’arco di poche decine di anni, nella seconda metà del Novecento, hanno dato vita a una teoria che descrive i componenti fondamentali della materia e come questi interagiscono tra loro. Una teoria che fornisce sia spiegazioni sui processi fisici che conosciamo, sia predizioni – finora sempre verificate – su eventi non ancora osservati. La figura 1 mostra chi sono i soggetti che operano nel mondo subatomico: la materia è composta da dodici particelle cariche o neutre (i fermioni), quattro particelle che permettono loro di interagire (gluone, fotone, bosoni W e Z) e il bosone di Higgs a reggere questa impalcatura[1]

 Figura 1. Il modello standard delle particelle elementari

Il percorso che ci ha portato a questo livello di comprensione è stato complesso e tortuoso, pieno di vicoli ciechi e di lunghe deviazioni. In primo luogo, perché il mondo subatomico non si può osservare con microscopi ordinari. È stato necessario sviluppare nuovi metodi e nuove tecniche e tecnologie. Il metodo con il quale i ricercatori studiano tuttora i processi subatomici è lo stesso utilizzato da Ernst Rutherford nel suo esperimento del 1908, con il quale scoprì la struttura dell’atomo. Rutherford utilizzò come sonde particelle α prodotte da decadimenti radioattivi lanciate contro atomi d’oro, andando a studiare la distribuzione delle particelle dopo gli urti con i nuclei. 

Da allora non abbiamo smesso di replicare questo esperimento, utilizzando come sonde particelle scagliate verso il cuore della materia con energia sempre più elevata. Lo studio di quello che emerge da questi urti ci permette di “vedere” l’infinitamente piccolo e, al crescere dell’energia delle nostre sonde, di “guardare” a distanze sempre più piccole[2]. Da un lato l’invenzione degli acceleratori di particelle che, a partire dagli anni Trenta del Novecento, hanno fornito sonde di ogni tipo e con un’energia sempre crescente, dall’altro gli sviluppi della tecnologia dei rivelatori di particelle, hanno fornito gli strumenti con cui, nei decenni successivi, gli scienziati hanno potuto esplorare il mondo subnucleare. 

Dal punto di vista teorico, le basi di partenza necessarie per questa esplorazione erano la relatività ristretta e la meccanica quantistica, ma anche qui gli sviluppi teorici sono stati decisivi per fornire un senso alle osservazioni sperimentali. In effetti il modello standard rappresenta forse il maggior successo della descrizione quantistica del mondo (tecnicamente la denominazione è teoria quantistica di campo).

Nel mondo subatomico agiscono in maniera diretta tre delle quattro forze che conosciamo: 

  • la forza elettromagnetica, che tiene insieme atomi e molecole;
  • la forza debole, responsabile di molti decadimenti radioattivi;
  • la forza forte[3], che per esempio è quella che lega insieme i nuclei. 

L’attrazione gravitazionale è completamente trascurabile rispetto a queste tre. In meccanica quantistica le interazioni tra particelle elementari avvengono attraverso lo scambio di un mediatore (detto bosone). Un bosone “familiare” è il fotone, che media la forza elettromagnetica.

Negli anni Trenta del Novecento Enrico Fermi sviluppò la prima teoria sulla forza debole che permetteva predizioni e verifiche, pur non affrontando direttamente il problema della natura dell’interazione. Nel 1934 il numero di particelle note era piccolissimo: oltre all’elettrone e al protone, da poco si era aggiunto il neutrone e si ipotizzava l’esistenza del neutrino (utilizzato da Fermi per spiegare alcune caratteristiche dei decadimenti da forza debole). Il primo era un leptone (come pure il neutrino), gli altri due adroni. 
 Rapidamente l’elenco andò allungandosi con il muone (un altro leptone) e – non appena i primi acceleratori furono disponibili per la ricerca – con una pletora di nuovi adroni (mesoni prima, seguiti poi da innumerevoli altre particelle elementari). 

Negli anni successivi l’entrata in funzione di un acceleratore più potente (o di un nuovo, più sofisticato, apparato di rivelazione) era pressoché immancabilmente segnata dalla scoperta di nuovi adroni (particelle che interagiscono attraverso la forza forte). Nei primi anni Sessanta l’analisi delle proprietà di questo vero e proprio zoo ha evidenziato regolarità nelle proprietà di queste particelle. Questo ha innanzitutto portato a predirne di nuove, poi effettivamente osservate. A partire da questi sviluppi, nel 1964 Murray Gell-Mann e George Zweig (indipendentemente) proposero che tutti gli adroni (a cominciare dal neutrone e dal protone) fossero composti da oggetti particolari (a cui Gell-Mann dette il nome quark), con carica frazionaria[4] (±1/3 o ±2/3). 

Per descrivere gli adroni allora noti erano sufficienti tre quark: up, down, strange. A questi si sono poi aggiunti il quark charm (1974), il beauty o bottom (1977) e il top (1995). Sia il termine quark - che prende spunto da una strofa presente nel Finnegans Wake di James Joyce, Three quarks for Muster Mark - che i loro nomi (up, down, strange ecc.) sono completamente arbitrari.

Oggi sappiamo che la materia è composta integralmente da fermioni, particelle elementari che hanno la comune proprietà di avere spin ½[5]. Lo spin è una proprietà intrinseca delle particelle e viene misurato come frazioni (frazione minima: ½) della costante di Planck divisa per 2π: ђ. Conosciamo particelle con spin 0, ½, 1 ecc. Possiamo dividere i fermioni in due gruppi: 

  •  i leptoni, di cui fanno parte l’elettrone, il muone, il tau (tutti con carica elettrica –1) con i rispettivi neutrini (carica elettrica zero);
  •  i quark (che compongono gli adroni) che, come abbiamo detto, hanno carica +2/3 (up, charm, top) o –1/3 (down, strange, bottom). 

Per quello che ne sappiamo i leptoni, come i quark, sono puntiformi e non hanno una sottostruttura[6].

Nello stesso tempo, in un processo indissolubilmente legato agli sviluppi sperimentali cui abbiamo accennato, migliorava la comprensione di come queste particelle interagiscano tra di loro. All’inizio abbiamo nominato tre interazioni fondamentali ma, almeno dal citato articolo di Fermi, in un classico approccio riduzionistico, c’erano stati vari tentativi di unificare le interazioni deboli ed elettromagnetiche. 

A proporre la soluzione corretta furono, nel 1967-1968, Steven Weinberg e Abdus Salam. Partendo da una situazione perfettamente simmetrica, attraverso un meccanismo di rottura spontanea di questa simmetria, la teoria di Weinberg e Salam otteneva le due interazioni – elettromagnetica e debole – e contestualmente si creavano tre bosoni mediatori: il fotone (a massa e carica nulle) e due particelle (una carica e una no) massive (W± e Z0).

All’epoca si conoscevano solo processi deboli mediati da una particella carica (nel loro caso il W±) e la teoria si presentava come una delle tante ipotesi possibili. Inoltre, da un punto di vista teorico, c’era un problema formale che pesava sulla possibilità di accettare questa teoria come paradigma. Sarà un esperimento al CERN, nel 1973-1974[7], a dimostrare (indirettamente) l’esistenza dello Z0 (osservando l’esistenza di processi previsti dalla teoria di Weinberg-Salam come mediati da questa particella). Un altro esperimento, sempre al CERN, dieci anni dopo, osserverà direttamente W e Z, scoperta che frutterà il Premio Nobel a Carlo Rubbia e Simon Van der Meer. A cento anni dalla prima unificazione delle forze elettrica e magnetica a opera di James Clerk Maxwell, il lavoro di Weinberg e Salam rappresenta un altro successo dell’approccio riduzionistico.

©AdityaSinha/Shutterstock

Per quanto riguarda la forza forte, ci vorranno dieci anni dall’ipotesi di Gell-Mann e Zweig sui quark per dare vita a una teoria, la cromodinamica quantistica, che spiega i processi governati da queste interazioni. In questo caso il bosone si chiama gluon (dall’inglese glue per colla, come dire: collone), e i quark posseggono la caratteristica (controintuitiva) di apparire come particelle libere a piccole distanze, ma di non poter vivere separatamente. Il termine “cromodinamica” deriva da una proprietà (la possiamo immaginare analoga alla carica elettrica) dei quark detta colore[8]. Ci sono tre colori e ogni quark può avere uno solo dei tre colori a disposizione, ma le particelle che osserviamo hanno una carica di colore pari a zero. 

Il Bosone di Higgs

Perché il bosone di Higgs è così importante? La bellissima teoria che abbiamo descritto non permette, in maniera naturale, di assegnare massa alle particelle elementari. Eppure, sappiamo che queste hanno massa: dal leggerissimo elettrone (0,511 MeV), al pesantissimo quark top (175 GeV, “pesante” come un atomo d’oro), dal neutrino (che sappiamo avere una massa piccolissima e ancora ignota), al leptone tau, la cui massa vale quasi quanto quella di due protoni. Questo è però un caso fortunato, nel quale la soluzione è stata proposta prima che il problema si ponesse. Il meccanismo di rottura spontanea di simmetria, utilizzato da Weinberg e Salam per unificare la forza elettromagnetica e la forza debole, è proprio quello descritto da Peter Higgs, François Englert e Rene Brout nei loro articoli del 1964. Non solo il meccanismo fornisce massa ai bosoni W e Z attraverso l’interazione con il campo di Higgs, ma in modo automatico anche tutti i fermioni acquisiscono massa interagendo con il campo di Higgs. Il modello è completo e la nostra visione della massa è rivoluzionata: non è più una proprietà intrinseca, ma è il frutto di una interazione.

Un ritratto di Peter Higgs; ©graham clark / Alamy Stock Photo

A questo punto il modello standard è completo: abbiamo le interazioni forti (mediate dai gluoni a spin 1), quelle elettrodeboli (mediate da fotone, W e Z, tutti a spin 1), 12 fermioni (spin ½) e una particella a spin 0 (il bosone di Higgs). È importante notare che la costruzione del nostro modello del mondo subatomico parte dall’assunzione che in natura esista una particolare simmetria, detta simmetria di gauge, che deve essere rispettata. In effetti entrambe le forze rimaste in gioco (la forza elettrodebole e la forza forte) rispettano questa simmetria. La figura 1 e la tabella esplicativa descrivono il nostro modello.

 

What's next?

Sappiamo che il modello standard non può essere la teoria ultima. Innanzitutto, come abbiamo detto, non include la gravitazione. Anzi non abbiamo neppure una teoria quantistica della gravitazione. Sappiamo che a energie enormi, ovvero a scale di distanza veramente piccole, le forze devono unificarsi (e quindi la forza forte e quella elettrodebole divengono una sola forza), ma al momento non abbiamo una teoria che ci dica come questa unificazione avviene. 

 

Ci sono ipotesi e proposte, ma nessuna prova sperimentale. La lista dei problemi aperti è lunga: si va dalla presenza di sola materia nel nostro Universo (ma come è scomparsa l’antimateria?), al problema della materia oscura (che rappresenta il 24% del totale della materia presente nell’Universo). Lo stesso bosone di Higgs è un oggetto misterioso: è una particella elementare a spin-0, questo ha delle implicazioni non ovvie e che lasciano perplessi. Nella terminologia della teoria quantistica dei campi, quest’ultima particella è una “eccitazione” del campo di Higgs e può essere prodotta in urti ad altissima energia, cosa che è stata fatta all’LHC del CERN. Averlo osservato è un primo passo, uno dei compiti che aspettano i ricercatori nei prossimi anni è investigare la sua natura.

 


 NOTE

[1] Ogni particella carica ha anche la sua antiparticella. Esiste una ipotesi, avanzata da E. Majorana e non ancora verificata, che il neutrino sia anche l’antiparticella di sé stesso.

[2] La relazione tra l’energia di una particella e la sua lunghezza d’onda equivalente è λ= h/p dove p è il momento della particella e h la costante di Planck. Un elettrone con l’energia di 1 GeV ha una lunghezza d’onda di circa 10–13 cm e quindi può sondare oggetti di quelle dimensioni. In fisica delle particelle si usa come unità di misura dell’energia l’elettronvolt (eV) e i suoi multipli (1 MeV = 1 milione di eV, 1 GeV = 1 miliardo di eV). Sfruttando l’equivalenza tra massa ed energia, si usa la stessa unità di misura per la massa. Convenzionalmente, per praticità, si può eliminare c – la velocità della luce – dall’equazione. In questo modo un protone ha massa di circa 1 GeV e un elettrone ha massa 0,511 MeV. 

[3] Le particelle che interagiscono tra loro attraverso la forza forte (come, per esempio, protoni e neutroni), sono dette adroni.

[4] In fisica delle particelle la carica elettrica è comunemente espressa in termini della carica dell’elettrone.

[5] Il nome deriva da un lavoro di Fermi che descrive la termodinamica di un gas di particelle con spin ½.

[6] Il limite più stringente alla dimensione dell’elettrone (2,8 10–19 cm) viene dall’analisi dei dati raccolti dagli esperimenti svolti al LEP (Large Electron Positron Collider) al CERN negli anni Novanta del Novecento. L’esperimento ZEUS a HERA (collisore elettrone-protone presso il laboratorio DESY di Amburgo) ha ottenuto un limite alla dimensione effettiva dei quark di 4,3 10–17 cm.

[7] Nello stesso 1974 fu pubblicato da Gerard t’Hooft un lavoro teorico che forniva la soluzione al problema che la teoria elettrodebole formalmente presentava.

[8] Il nome colore è completamente arbitrario, emerse nel tempo per analogia ai “colori fondamentali”.

Referenze iconografiche: ©DAVID PARKER/Science Photo Library; ©graham clark / Alamy Stock Photo;©AdityaSinha/Shutterstock.