La scuola è la più grande infrastruttura sociale del nostro Paese. Le scuole permeano il territorio nazionale in modo capillare, accogliendo il fiorire dei saperi e delle abilità, promuovendo l’acquisizione di competenze trasversali prima che disciplinari, diventando luogo di incontro generazionale e intergenerazionale, e spesso – se parliamo di scuola primaria - sono l’unico ambiente educativo extrafamiliare in cui i bambini possano confrontarsi con punti di vista, abitudini, culture e sguardi differenti da quello della propria famiglia.

La scuola è inoltre un collante sociale potentissimo, che crea occasioni di incontro anche per le famiglie di tutti gli alunni e le alunne, contribuendo a una società che non solo seleziona singole esperienze e singoli ambienti da vivere e far vivere ai propri figli, ma che incontra e frequenta, grazie ad essa, il mondo così com’è, con tutta la sua ricchezza, differenza e complessità.

Si è fatto strada, da tempo, il concetto di “scuola diffusa”. Sebbene non sia un concetto cui aderisco volentieri, nel suo significato più radicale, che vede l’inutilità dell’istituzione scolastica per far fiorire gli apprendimenti in tutti gli altri luoghi dove si esercita la cittadinanza, condivido il fatto che la scuola, che ancora considero luogo insostituibile di riflessività condivisa, possa e debba sempre più aprirsi e diventare parte della “città educante”.
La città educante è l’insieme dei servizi e delle persone che, nello spazio cittadino, sostiene i processi di apprendimento, contribuendo a un dialogo e a esperienze formative per bambini e bambine, ragazzi e ragazze, giovani e meno giovani adulti che apprendono.

In una città educante  - e dunque in una scuola che sia aperta ad essa - si apprende certamente anche all’esterno, a contatto con la natura o gli spazi verdi che il tessuto urbano concede: la natura infatti è maestra per eccellenza, presenta, richiama e risveglia le percezioni sensoriali dei bambini, avvicinando ciascuno attraverso esperienze memorabili che coinvolgono mani che raccolgono, piedi che calpestano, nasi che odorano, braccia che impastano, palati che assaggiano, orecchie che ascoltano voci e suoni.

Ma anche piazze, parchi comunali, musei, e perfino negozi, edicole, farmacie possono diventare servizi utili a sostenere gli apprendimenti. Rosita Folli, nel volume Scuola Aperta (Pearson Italia 2019), proponeva ad esempio un laboratorio per la promozione della conoscenza dei mestieri sul territorio, attraverso l’intervista di genitori, nonni, vicini di casa e interviste a coloro che operano nei servizi di quartiere e – perché no – una mappatura delle realtà solidali del territorio.

Nella scuola che è parte di una “città educante” è di alto valore didattico-educativo quando le associazioni del territorio hanno la possibilità di entrare a scuola e raccontarsi, o addirittura far sperimentare in modo concreto ciò di cui si occupano. È il caso di volontari della Protezione Civile che diventano veri e propri promotori di Sicurezza per gli alunni di tutte le età, spiegando ogni anno pericoli e prevenzione in diversi ambienti, da quello domestico a quello della strada. Nella mia esperienza ho incontrato davvero tante realtà di volontari che insieme alla didattica scolastica vanno a comporre in modo vivido e concreto un quadro ricco e complesso di conoscenze e capacità: dagli astrofili che insieme alle classi hanno realizzato un astrolabio e invitato i bambini a rivolgere più spesso il naso all’insù, nelle sere di cielo sereno, ai radioamatori di zona che hanno permesso collegamenti radio tra diverse scuole della città, svelando alcune informazioni sconosciute ai più sulla magia del contatto radio, al papà vivaista che è venuto a trovarci e a raccontare la meraviglia e la creatività dei semi, nella loro ostinata missione per propagare la vita…

Infine, nella Città educante la scuola può e deve sfruttare anche i propri spazi online, perché l’innovazione digitale non sia solo una sostituzione del gessetto con pixel colorati ma possa ospitare realtà lontane, rendendole potentemente vicine. È il caso di gemellaggi attraverso piattaforma con classi di altre città o addirittura altri paesi o il video contatto con autori, illustratori, poeti, scienziati che possano farsi vicini e narrare la propria esperienza in prima persona.  

Per fare della scuola davvero un luogo aperto alla città educante però è necessario prima di tutto agire con veri e propri progetti duraturi, intessere relazioni solide perché ciò che si sperimenta un giorno non crolli e non venga abolito il giorno dopo, in una dimensione che non comprenda solo il livello dell’organizzazione scolastica ma che coinvolga anche chi sieda e parli in Comune, che si faccia sentire a livello politico, attraverso comitati e reti riconosciuti da tutti.

In una scuola aperta e parte della Città educante, dunque in una vera e propria “smart community”, come direbbero oggi i sociologi, non ci sono solo insegnanti e bambini. A scuola entrano giovanissimi a parlare ai loro amici più piccoli di come sono le scuole secondarie, perché dalla voce di un tredicenne si impara più che dalla maestra. Ed entrano gli anziani, ad insegnarci a lavorare a maglia. O li si va a trovare nella RSA più vicina.

Questa è – con il supporto delle tecnologie o meno – una “smart community” in cui la scuola si fa ed è a scuola, ma è anche dappertutto, al tempo stesso fulcro pulsante di incontri e apprendimenti e periferia, dove fioriscono gli apprendimenti informali sul ciglio della strada.

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