Il mito racconta che Memoria (Mnemosyne) è figlia di Gea e Urano, di Terra e Cielo.
Memoria nasce da un sottile legame che collega la terra con il cielo stellato.
La memoria è terrestre e stellare, racconta dell’umano, ma al contempo anela all’eternità dei cieli.
Di lei si innamora Zeus, il padre di tutti gli dei, e, travestito da pastore, per nove notti si unisce a lei nel desiderio, dando vita alle nove muse, protettrici delle diverse arti: poesia, storia, astronomia, canto, musica e danza.
Queste arti sono gli utensili per l’uomo, strumenti preziosi perché grazie ad essi, nel ricordo, nel fare e rifare, nel riportare alla memoria, l’uomo si collega alla sua essenza divina, crea un ponte con l’eternità. La musica (mousiké) pertanto non si disgiunge dalla scrittura, dalla parola, ma è sorella, musa tra le muse. Allora il suono è anche gesto, è segno. 

Dentro questo racconto che appartiene al mito ritroviamo la storia dell’uomo e della musica, una musica che non si esaurisce nelle pratiche e nei metodi didattici all’interno di una classe, ma una musica che è esperienza propria, che affonda le sue origini nell’uomo, nell’intimità con la terra, con il cosmo. Pitagora fu uno dei primi che cercò le connessioni musicali nel cosmo, a partire dai concetti di consonanza e di dissonanza, concetti che uniscono la musica, la cosmologia, la matematica, come un unico evento. L’uomo dal concepimento vive dentro un’orchestra di suoni, il grembo materno, che ha in sé quelli che in musica vengono chiamati i timbri, le intensità, le durate e i ritmi.
I ritmi del respiro, del passo, del battere e del levare, sono i fondamenti dell’esperienza umana, dell’esperienza musicale.
Se togliamo il ritmo alla parola, la parola diviene incomprensibile.
Se cambiamo il ritmo alla melodia, la melodia diventa irriconoscibile.
Fare musica con i bambini a scuola significa aver cura ed essere consapevoli di tutto questo.
E questo è proprio il terreno fertile dal quale attingiamo ogni volta che entriamo in classe, per fare musica, ma non solo, per fare storia, per fare italiano, per fare matematica…
Fare musica significa principalmente imparare a far silenzio, perché senza silenzio non c’è alcun inizio. Il direttore d’orchestra infatti, prima di iniziare, crea quel silenzio che genera la giusta attesa, quell’attenzione condivisa, quel levare nel respiro dell’inizio, il transitorio d’attacco appunto, che dà vita a tutto il resto. Questo levare è respiro. L’attività musicale, l’attività in classe sugli apprendimenti, è attività orchestrale: la classe è un’orchestra.
Ci accordiamo con i bambini, con i ragazzi, cercando di capire come stiamo e dove ci troviamo. Questo ascolto che “a specchio” ci riguarda, ci dà il senso della nostra presenza in classe, del nostro essere guida, insegnanti educatori e facilitatori, e al tempo stesso ci dà il senso del nostro essere “bambini”, desiderosi di giocare ed entusiasmarci.

Questo desiderio, questo atteggiamento anticipa il “fare” musica. Nella musica d’insieme che realizziamo in classe e nelle sessioni di musica si respira allora la complicità dell’orchestra, il rispetto per sé stessi e per gli altri, la dimensione del silenzio, delle pause e delle attese, il piacere di non esser soli, ma di essere insieme. Fare musica è perciò esperienza non solo culturale ma di socialità, perché trova la sua massima realizzazione nell’esperienza con gli altri, perché nasce dall’esigenza di dire, raccontare, comunicare, ricordare.

La voce è il nostro primo strumento, nasce da un corpo che risuona.
Educare i bambini alla vocalità significa dunque mettere l’attenzione proprio a sé stessi, al modularsi della voce nel corpo, agli accenti ritmici e al ritmo delle parole presenti nei canti dedicati all’infanzia.
Il ritmo genera vita, è gioco, è gioia. È un gioco semplice e al contempo complesso.
Questo lavoro nasce con i bambini sin dalle prime classi dell’infanzia.
I lavori dedicati all’euritmia, alla relazione tra suoni ritmi e movimenti, creano le basi per gli apprendimenti. Per esempio nella pratica del salto alla corda, c’è un ritmo che ritorna, una relazione con una corda che gira e con la quale devo interfacciarmi, una consegna chiara, un tempo limitato con un inizio ed una fine. Tale pratica psicomotoria, non si esaurisce solo nel suo essere movimento, in palestra, ma diviene necessaria nei processi di apprendimento in classe. Non si tratta di leggere tutto questo come un semplice “sfogo”, ma di essere consapevoli che dentro a questa pratica c’è un pensiero in-corporato.

Un adulto, per accettare tutto questo, ci mette del tempo. Liberarsi di alcune strutture è un po’ come perdere il controllo. In classe si utilizzano gli strumenti musicali. Tali strumenti sono i timbri del suono e sono l’espressione del prolungamento della voce. I bambini imparano a discriminare i timbri, attraverso l’ascolto, talvolta a occhi chiusi, per favorire il più possibile l’attenzione.
Gli strumenti vengono scelti in base al timbro, al piacere che questo suscita.
Dalle sfumature timbriche nasce il dialogo, il dialogo tra le parti, vita di relazione

Nella nostra esperienza di musicisti, la musica è luogo della salvezza, una casa che non tradisce, una casa fedele dentro la quale ci raccontiamo e al contempo ci trasformiamo. 
Manifestandosi nel tempo che passa, la musica trasforma le emozioni e ce le riconsegna rigenerate.
Nelle classi, nei gruppi di musica, negli incontri di musicoterapia la musica provoca, in continuazione. 
Terreno scomodo che sollecita corpi, che smuove emozioni, che ripristina nuovi equilibri, che favorisce l’espressione delle emozioni, generando vere e proprie occasioni di crescita personale.

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