AREA GIURIDICO ECONOMICA | PROPOSTE DIDATTICHE
La politica monetaria dopo il ritorno dell’inflazione
Come le Banche centrali stanno affrontando il post-pandemia
Il ripresentarsi di un’inflazione alta ha spinto le Banche centrali a trovare nuovi strumenti per affrontare un contesto globale mutato.
Le Banche centrali
Le Banche centrali (BC) sono le autorità di politica economica responsabili della regolazione dell’offerta di moneta, del buon funzionamento del sistema dei pagamenti e della stabilità dell’intero sistema finanziario e, in particolare, bancario. Per raggiungere questi obiettivi usano diversi strumenti che si sono evoluti nel tempo e, quando i tradizionali non funzionano più, cercano di individuare strumenti nuovi.
La crisi finanziaria e i nuovi strumenti di politica monetaria
Con la crisi finanziaria del 2007-2008 – e la conseguente crisi del debito europeo del 2010 – le BC hanno visto i vecchi strumenti di politica monetaria, in particolare i tassi di interesse, smussarsi e diventare inefficaci. Nei fatti, i tassi di riferimento – per la Banca centrale europea (BCE) è il tasso di rifinanziamento – sono stati portati velocemente a zero.
L’inefficacia degli strumenti tradizionali ha spinto le BC ad adottarne uno nuovo, il quantitative easing (QE). Con questo strumento, le BC si sono concentrate più sulla quantità di moneta in circolazione che sul tasso di interesse. Il QE ha avuto l’obiettivo di sostenere la domanda aggregata e, per questa via, il livello dei prezzi, cercando il più possibile di evitare la deflazione (cioè la riduzione dell’indice generale dei prezzi).
In breve e in linea generale, il quantitative easing funziona attraverso diversi canali:
- la BC interviene con l’acquisto di azioni e obbligazioni di imprese private con il fine di sostenerne i prezzi e, come conseguenza, sostenere i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese;
- la BC può acquistare titoli pubblici finanziando direttamente la spesa pubblica (nei paesi in cui è possibile) oppure incidendo sul tasso di interesse a cui i paesi prendono a prestito sul mercato, sostenendo anche in questo caso la spesa pubblica;
- infine, l’aumento di liquidità del sistema, portando al deprezzamento del tasso di cambio, spinge le esportazioni del paese.
D’altra parte, lo spettro della deflazione e la crescente rilevanza per economisti e banchieri del ruolo delle aspettative nell’incidere sulle decisioni economiche hanno portato le BC a usare fortemente anche la comunicazione, per convincere e guidare le decisioni degli operatori economici. Lo strumento utilizzato è la cosiddetta forward guidance, con cui si intende l’attiva comunicazione da parte delle BC non solo di come varierà il tasso a breve termine, ma anche di quale sarà l’andamento del tasso stesso nei periodi successivi. L’obiettivo è guidare gli operatori nella definizione delle loro aspettative sulla politica adottata dalle BC.
Per capire bene come funziona questo strumento dobbiamo fare un piccolo passo indietro.
A partire dagli anni ’60 del secolo scorso, uno degli strumenti più usati in economia è la Curva di Phillips, che esprime la relazione, esistente almeno nel breve periodo, fra tasso di disoccupazione e inflazione. Un elemento rilevante di questa relazione teorica è dato dalle aspettative di inflazione che hanno gli operatori: un minimo di inflazione che gli operatori si aspettano e che prendono in considerazione nelle loro decisioni. Se, ad esempio, mi aspetto che l’inflazione sarà del 5%, chiederò un aumento salariale di almeno il 5%, per mantenere perlomeno invariato il mio potere d’acquisto. Incidere sulle aspettative è dunque fondamentale per le BC, perché permette di ridurre l’inflazione senza gravare sull’economia reale.
D’altra parte, la formazione delle aspettative dipende in modo cruciale dal periodo storico: negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, dato che l’inflazione era elevata e variabile, le aspettative venivano riviste in continuazione e gli agenti economici le formavano in modo adattivo, cioè guardando al passato; dall’inizio degli anni ’90 un lungo periodo di bassa inflazione ha reso più costosa la revisione delle aspettative per tutti (nei fatti, osservare una bassa inflazione per diversi anni ha rafforzato l’opinione che questa si sarebbe mantenuta bassa – e possibilmente vicino al 2%). Ed è proprio in questo che ha aiutato la forward guidance: una BC credibile e forte nel comunicare e nell’informare sia sugli obiettivi di inflazione di medio-lungo periodo sia sulle politiche che intraprenderà può agevolmente guidare le aspettative e, per questa via, spingere l’inflazione verso un valore desiderato.
Fra la crisi finanziaria e il Covid-19
Dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 la politica monetaria si è concentrata sulla necessità di evitare la deflazione, vale a dire non far diventare il tasso di inflazione negativo.
La motivazione è semplice: la deflazione è considerata pericolosa dagli economisti perché può portare alla distruzione della capacità produttiva. Basti immaginare imprese che vedono ridursi i prezzi e non riescono più a sostenere i costi: l’unica cosa che potranno fare è licenziare. Come risultato, la riduzione del reddito dei lavoratori determinerà un abbassamento della domanda di beni e servizi e, di conseguenza, dei prezzi.
Questo scenario è definito spirale deflazionistica. D’altro canto, la deflazione è pericolosa anche perché rende più oneroso per i debitori ripagare il proprio debito, spingendoli verso il fallimento e mettendo in difficoltà proprio il sistema finanziario la cui stabilità è, come abbiamo detto, uno degli obiettivi delle BC.
Per evitare la deflazione, le BC hanno mantenuto a lungo sia tassi di interesse prossimi allo zero, sia politiche molto espansive (come il QE), aiutate da un’inflazione persistentemente molto bassa. Anche la forward guidance ha avuto un ruolo centrale in questo: l’annuncio di una politica monetaria fortemente espansiva, con il mantenimento del tasso di interesse per un periodo indefinitamente lungo, ha avuto l’obiettivo di migliorare la fiducia all’interno dell’intero sistema economico.
Questo è stato lo spirito della politica monetaria fino alla pandemia di Covid-19 che, tuttavia, sembra aver aperto il vaso di Pandora. Un mix di eventi, che vanno dall’accelerazione della domanda mondiale post Covid-19 all’emergere di strozzature lungo le catene globali di valore, all’aumento dei prezzi delle risorse energetiche – non solo come conseguenza della crisi russo-ucraina –, hanno inciso sui diversi sistemi economici, riportando l’inflazione al centro prima del dibattito, poi delle preoccupazioni. Non da ultima, secondo molti economisti è stato proprio la politica monetaria espansiva delle BC ad aver generato un’ulteriore spinta alla domanda aggregata, che ha dato un contributo rilevante al ritorno dell’inflazione.
Il ritorno dell’inflazione e le risposte della politica monetaria
Nel 2021 la BCE e la Federal Reserve Bank (FED) avevano già iniziato a delineare una prudente exit strategy dalle politiche monetarie ultra espansive messe in atto con la pandemia, con lo scopo di frenare le aspettative di inflazione senza interrompere la ripresa del 2021. L’obiettivo dei due istituti era evitare che l’inflazione attesa, entrando nelle contrattazioni salariali, determinasse un processo inflazionistico autosostenuto. Allo stesso tempo, avevano prospettato un aumento dei tassi di interesse nel corso del 2022, anche se la posizione della BCE era sembrata fin da subito più attendista.
La forward guidance della BCE e le dichiarazioni in merito ai programmi a medio termine su acquisto di titoli e tassi d’interesse delineavano una politica dei tassi più prudente – si parlava genericamente di un aumento nella seconda parte del 2022 –, mentre la dismissione dei titoli in portafoglio veniva rinviata a fine 2024. La FED e la BCE, seppur con tempi e tecniche diverse, avrebbero continuato a rinnovare gli stock di titoli nei loro portafogli, per non ridurre liquidità e credito.
Nella figura 1 è riportata l’inflazione per Stati Uniti e Unione Monetaria Europea per il periodo 2019-2023. L’inflazione si ripresenta prepotentemente prima negli Stati Uniti e poi in Europa, modificando la visione di medio e lungo periodo delle banche centrali.
Tuttavia, fra le due sponde dell’atlantico l’inflazione ha avuto una natura diversa. Negli Stati Uniti è stato chiaro fin da subito che si trattava di un’inflazione da eccesso di domanda: un mix di aumento della domanda di beni e servizi unito a sofferenze sul mercato del lavoro che hanno spinto verso l’alto i salari e ridotto di conseguenza l’offerta. In Europa invece è stato l’aumento del prezzo delle materie prime e del costo dell’energia a guidare il ritorno dell’inflazione. Questa differente lettura dell’aumento dei prezzi ha portato le BC delle due aree a comportarsi in modo diverso.
Come è cambiata la politica monetaria?
La figura 2 mostra l’andamento di due strumenti di politica monetaria usati rispettivamente da FED e BCE: il federal funds rate e il tasso di rifinanziamento.
È chiaro come la FED sia intervenuta prima e in modo più aggressivo della BCE per cercare di frenare un tasso di inflazione che volava verso le due cifre. L’istituto di Francoforte, invece, ha atteso e ha contenuto l’aumento del tasso di interesse (mentre il board della BCE ha portato il tasso al 4,5%, il tasso più elevato dalla sua fondazione nel 1999).
D’altra parte, le comunicazioni che in passato erano chiare, precise e soprattutto di medio-lungo periodo si sono rilevate nei fatti molto più smorzate. Nell’ultimo anno, negli interventi della BCE è stata più volte usata un’affermazione che più o meno suona così: le decisioni che prenderemo dipenderanno dall’evolversi della situazione. Per fare un esempio concreto, nelle dichiarazioni alla stampa del 14 settembre 2023 la Presidente Christine Lagarde ha chiaramente detto che “il Consiglio direttivo continuerà a seguire un approccio guidato dai dati nel determinare livello e durata adeguati della restrizione. In particolare, le decisioni del Consiglio direttivo sui tassi di interesse saranno basate sulla sua valutazione delle prospettive di inflazione considerati i dati economici e finanziari più recenti, della dinamica dell’inflazione di fondo e dell’intensità della trasmissione della politica monetaria.” Questo vuol dire che, più che tracciare un sentiero di medio-lungo periodo, la Banca centrale prende decisioni analizzando i dati economici che via via verranno fuori. Qual è l’effetto di questo cambiamento? Da una parte, lascia un po’ di incertezza agli operatori su quale sarà la direzione della politica monetaria e soprattutto la sua magnitudo; dall’altra, aumenta l’elemento discrezionale della BC. L’effetto netto è un ritorno alla necessità per gli operatori di modificare le aspettative via via che le decisioni della BC vengono prese.
Le sfide e le criticità
Mentre scriviamo questa nota (ottobre 2023), le Banche centrali, e in particolare la BCE, hanno davanti a sé almeno tre sfide.
La prima, ovviamente, è la possibilità di riportare l’inflazione il più velocemente possibile a un valore basso e stabile e con un profilo di lungo periodo compatibile con l’obiettivo del 2% di inflazione. Per adesso questa sfida è tutt’altro che vinta: l’inflazione si è ridotta, ma non è ancora sotto controllo. Prima o poi, per esempio, chi ha perso potere d’acquisto potrebbe chiedere un aumento dei salari spingendo nuovamente in alto, per questa via, l’inflazione.
La seconda sfida riguarda la necessità di non aumentare troppo i tassi di interesse per evitare una profonda recessione. A tal riguardo, i venti di de-globalizzazione e il rallentamento della crescita del Pil in paesi come Cina e Germania rendono una recessione globale non troppo lontana, ponendo le BC davanti all’alternativa fra un’inflazione media più elevata degli obiettivi e una recessione mondiale. Per fortuna, la crisi finanziaria ha insegnato alle BC che la gestione dei tassi di interesse non è necessariamente legata a quella delle quantità di moneta immessa nel circuito economico, cosicché una politica di rialzo dei tassi appare del tutto compatibile con il mantenimento di ampi canali di liquidità, per evitare una recessione.
Infine, l’Unione Europea è di fronte al suo peccato originale: la mancanza di un governo che delinei una comune politica fiscale. La BCE non può esser lasciata sola nell’affrontare le sfide economiche del XXI secolo.
Referenze iconografiche: © Halfpoint/Shutterstock
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Giorgio Ricchiuti è professore associato di Politica Economica all’Università di Firenze, dove insegna Macroeconomia e Economia Computazionale. È fellow del Complexity Lab in Economics dell’Università Cattolica, in cui insegna Macroeconomia Avanzata e Politica Economica. È autore di diverse pubblicazioni, tra cui il corso di Diritto ed economia Costituzione al futuro per il biennio delle scuole superiori e Pensare la Macroeconomia per l’università. È inoltre autore del podcast La battaglia delle idee. Il suo sito è www.grarchive.net.