Professore, in questa intervista vorremmo approfondire con lei alcune questioni significative del nostro tempo, che ci pongono come cittadini e cittadine di fronte a sfide complesse che richiedono consapevolezza e conoscenza, compiti cui la scuola è anzitutto chiamata. 

Cominciamo dall'elemento principale che ha segnato il passaggio dal XX al XXI secolo: la globalizzazione. Globalizzazione economica, ma anche culturale. A che punto siamo? Quale evoluzione presenta oggi a suo parere questo fenomeno?

“Globalizzazione” è un termine dietro al quale ci sono fenomeni complessi, in parte diversi tra loro. La parola ha avuto grande successo proprio per la sua potenza evocativa ad ampio raggio. Allude, in generale, al superamento dei confini, all’interdipendenza, a relazioni e connessioni sempre più estese e fluide. 

Sul piano ideologico, la globalizzazione è stata per un certo tempo oggetto di proiezioni ottimistiche da più punti di vista. All’indomani del 1989 si è pensato, in primo luogo, che per il mondo si stesse aprendo un’era caratterizzata dalla fine dei conflitti e dal trionfo finale e planetario della liberaldemocrazia. In secondo luogo, la sovranità statale e i nazionalismi, presupposto delle guerre del XX secolo, sarebbero dovuti entrare in una fase di irreversibile tramonto. Infine, si sarebbe dovuto realizzare l’ideale del mercato capitalistico autoregolato, a sua volta considerato vettore non soltanto della prosperità economica ma anche della diffusione globale della società liberale. 

A trent’anni di distanza, oggi vediamo come quelle previsioni non si siano avverate. I conflitti non si sono mai fermati e la violenza, pure la più efferata, continua purtroppo a essere un connotato del nostro tempo. Anche in Europa: lo hanno dimostrato le guerre della ex Iugoslavia negli anni Novanta, gli attentati terroristici di matrice islamista radicale all’inizio del XXI secolo e più recentemente la guerra in Ucraina. Lungi dal sembrare destinate all’obsolescenza, le nazioni continuano a essere attori decisivi della scena internazionale e il nazionalismo alimenta molti degli odierni conflitti. I poteri statali, infine, hanno assunto nuova rilevanza di fronte ai mali e ai costi sociali prodotti dalle forze incontrollate del mercato, le quali, se per un verso hanno consentito un sensibile miglioramento delle condizioni di vita in diverse parti del mondo (basti pensare a paesi come Cina e India, che hanno ottenuto benefici dalla globalizzazione), per l’altro hanno contribuito ad aumentare le diseguaglianze all’interno delle società occidentali. 

Di fronte a questo scenario, dobbiamo prendere atto della necessità di ripensare la globalizzazione, con la consapevolezza che molte aspettative neoliberali del mondo post-1989, incentrate sull’ideale di un benefico trionfo del capitalismo e della liberaldemocrazia, alla prova dei fatti, si sono rivelate erronee.

Dal punto di vista politico, in questi ultimi anni si sta affermando in Europa, ma non solo, il cosiddetto “sovranismo”, una tendenza in apparente contraddizione con le dinamiche globali. Cosa ne pensa? Si tratta di due facce della stessa medaglia?

L’emergere del “sovranismo”, per molti aspetti, rappresenta uno dei più evidenti segnali della crisi della globalizzazione. La libera circolazione di merci e persone, infatti, ha suscitato disagi e paure all’interno delle società nazionali. L’economia di molti paesi è stata sconvolta dalla possibilità di spostare la produzione in luoghi lontani, dove il costo della manodopera è molto più basso. L’integrazione sociale si è trovata di fronte all’imponente sfida derivante dalla gestione dei flussi migratori

In questo quadro, si è imposta nella retorica pubblica da parte di partiti e movimenti una “politica della paura” che fa leva sulla domanda di protezione e di sicurezza. Su tali basi, il sovranismo delinea una tendenza alla chiusura, alla “rinazionalizzazione”, all’ossessione identitaria, talvolta accompagnate da pulsioni autoritarie. Una risposta di tipo diverso a queste ansietà potrebbe invece provenire dal rilancio del welfare state, che nel corso del XX secolo ha rappresentato il più importante tentativo politico di neutralizzare la paura e di rispondere al bisogno di sicurezza, garantendo il diritto di tutte le cittadine e tutti i cittadini a determinati livelli di istruzione, benessere e protezione.

Nel 2020 la pandemia di Coronavirus si è diffusa per la prima volta sull’intero pianeta manifestando ancora dopo tre anni i suoi effetti. Per tutti ormai c’è un prima e un dopo. Per quali aspetti in particolare questo evento ha rappresentato una vera e propria svolta? Oltre la crisi e il dramma sanitario si possono cogliere conseguenze positive? 

La pandemia ha accelerato processi e trasformazioni che erano già in corso nel precedente decennio. 

In primo luogo, ha segnalato la necessità di ripensare la globalizzazione. Oggi siamo tutti consapevoli del fatto che essa non può ridursi all’abbattimento dei confini e al libero mercato. Con la diffusione delle infezioni, il mondo si è trovato per mesi, improvvisamente e drammaticamente, in una situazione opposta: si sono bloccate le vie di comunicazione e si sono interrotte le filiere produttive. La pandemia, dunque, ha dimostrato innanzitutto che occorre “razionalizzare” la globalizzazione, non affidandone gli sviluppi a un presunto “ordine spontaneo” del mercato capitalistico, bensì controllandoli e mettendo in atto a tale scopo, nel quadro globale, nuove e più efficaci forme di cooperazione internazionale

In secondo luogo, la pandemia ha contribuito in rilevante misura a segnalare il ruolo cruciale dei governi. Dopo tre decenni dominati ideologicamente dal paradigma neoliberale dello “Stato minimo”, le conseguenze economico-sociali dell’emergenza sanitaria hanno messo in evidenza -  ancor più di quanto non fosse in precedenza avvenuto con la “Grande recessione” del 2008-2009 - l’importanza di un impegno pubblico in sostegno delle fasce più vulnerabili della popolazione. Gli Stati nazionali, tuttavia, hanno spesso attuato una svolta “interventistica” sul piano della distribuzione di risorse; meno significativi, invece, sono stati i progetti di più lunga gittata, incentrati sulla creazione di servizi, come invece era avvenuto nell’epoca d’oro del welfare state, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso. Più che un autentico ritorno allo Stato sociale, in altre parole, si è spesso concretizzato uno “Stato distributista”, che si è posto quale primario obiettivo quello di favorire la ripresa economica attraverso i consumi, con l’effetto collaterale però di un preoccupante aumento tanto della spesa pubblica quanto dell’inflazione. 

In terzo luogo, l’emergenza sanitaria globale ha posto al centro del dibattito il tema del ruolo pubblico degli esperti. La politica si è dovuta affidare in misura rilevante alle prescrizioni degli scienziati. Un effetto collaterale, tuttavia, è stato l’emergere nell’opinione pubblica di posizioni di segno opposto: nei mesi di maggiori restrizioni alle libertà personali dovute alla diffusione del virus, alcune voci sono giunte a denunciare una “dittatura sanitaria”. Attraverso la rete digitale sono altresì circolate “teorie del complotto” prive di fondamento, che per spiegare la diffusione dell’infezione hanno chiamato in causa, ad esempio, gli interessi dei grandi gruppi farmaceutici e si sono spinte, in alcuni casi, a negare la stessa esistenza del Coronavirus. La pandemia, pertanto, ha contribuito a mettere in evidenza la gravità del problema della disinformazione e di come essa possa essere alimentata dai nuovi mezzi di comunicazione. La consapevolezza che dalla rete digitale, oltre a immense potenzialità di connessione e partecipazione, possano discendere anche gravi rischi per la società democratica è una delle eredità più preziose che provengono da questa esperienza drammatica.

La Cina è oggi uno dei grandi motori del mondo e sempre più ambiziosi sono i suoi progetti in tutti i campi strategici dello sviluppo, dalla tecnologia alla space economy, ma anche in ambito geopolitico. In prospettiva, si può parlare di un “secolo cinese”?

Per decenni, a partire dagli anni Ottanta, e soprattutto dopo il 1989, con il trionfo della globalizzazione neoliberista, l’Occidente ha coltivato una grande illusione: l’integrazione della Cina nel quadro del mercato capitalistico internazionale avrebbe dovuto avere come effetto anche una trasformazione liberaldemocratica del suo sistema politico. Gli esiti, tuttavia, sono stati molto diversi da quelli previsti: la Cina è uno dei paesi al mondo che ha tratto maggiori benefici dall’estensione globale dei mercati, senza che, tuttavia, la crescita economica intaccasse in profondità il suo sistema politico, incentrato sulla dittatura del partito comunista. Il governo di Pechino, al contrario, ha approfittato della fitta rete economica e commerciale internazionale per realizzare il progetto di elevare il paese al rango di superpotenza. La Cina è così diventata, nel mondo post-Guerra fredda, il più temibile concorrente degli Stati Uniti, tanto sul piano economico quanto su quello geopolitico. 

Su tali basi, il XXI secolo si è aperto con l’eventualità che il mondo stia assistendo al declino dell’egemonia statunitense e all’avvio del “secolo cinese”, anche se, chiaramente, non possiamo sapere quali saranno gli sviluppi. 

La presidenza di Xi Jinping ha accentuato i connotati ideologici nazionalistici del regime cinese e i paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno assunto a loro volta maggiore consapevolezza della necessità di vedere nella Cina non soltanto un possibile partner commerciale ma anche un concorrente geopolitico, le cui mire espansionistiche devono in qualche modo essere arginate. Recentemente, inoltre, la popolazione cinese ha cominciato a ridursi, per via di un declino netto del tasso di natalità. Nel 2022, per la prima volta dai tempi di Mao Zedong, in Cina il numero delle morti ha superato quello delle nascite. Le conseguenze sono di grande portata: dal calo delle entrate fiscali al maggiore peso economico che ricadrà sul sistema pensionistico. Ma soprattutto diminuisce la forza lavoro su cui la Cina può contare da decenni per sostenere la propria crescita, che in effetti sta subendo un rallentamento.

Un’ultima domanda su quella che forse è la sfida più complessa: la crisi climatica. Se ne discute moltissimo nell’opinione pubblica, nei media, tra i politici e gli scienziati, ma in concreto le risposte arrivano lentamente e un coordinamento stabile tra gli Stati sembra alquanto difficile da realizzare. Che cosa comporta prendere sul serio il tema della sostenibilità a livello globale? 

La crisi climatica rappresenta, secondo me, il problema globale più grave, quello che più di ogni altro dovrebbe mobilitare la società civile internazionale e che richiederebbe il massimo sforzo da parte dei decisori politici a ogni livello. Invece, per miopia e calcoli errati, al di là delle dichiarazioni di principio, le élite politiche ed economiche sono generalmente convinte che vi siano altre priorità ed emergenze. Da decenni in realtà gli scienziati hanno segnalato che si tratta di una questione improcrastinabile. Anche le Nazioni Unite hanno espresso un impegno in questa direzione: l’Obiettivo 13 dell’Agenda 2030 chiede di “Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico”. 

L’intensità e la frequenza dei fenomeni meteorologici estremi segnalano di continuo ai nostri occhi che non si tratta semplicemente di proiezioni in un futuro lontano: gli effetti devastanti di politiche incuranti dei danni ambientali sono già davanti a noi e destinati ad aumentare. 

A ostacolare un netto cambio di rotta vi sono, tuttavia, grandi interessi economici e la disponibilità ad assecondarli da parte dei dirigenti politici. La pubblica consapevolezza della drammaticità e dell’urgenza della crisi climatica, inoltre, è stata in parte erosa dalla diffusione della disinformazione: i media digitali, in particolare, sono stati spesso veicolo di teorie del complotto, in base alle quali il surriscaldamento climatico sarebbe solamente una favola, un’invenzione avente finalità politiche. 

In un quadro così drammatico, prendere sul serio il tema della sostenibilità è un compito che si deve assumere innanzitutto la scuola, luogo per eccellenza, in una società democratica, deputato alla formazione di cittadini e cittadine consapevoli, attivi e in grado di comprendere criticamente la realtà che li circonda.

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